Non esiste un carcere buono

Non esiste un carcere buono

Storia di Mohamed e di don Ettore Cannavera

“Prete, prete, io carcere, non capisco … perché? Io non ho fatto niente” Queste parole ce le racconta don Ettore Cannavera, che gestisce la Comunità “La Collina” nella provincia di Cagliari, per il recupero di giovani carcerati che scontano una pena alternativa al carcere. Continua don Ettore Cannavera, parlandoci di Mohamed, un giovane di nazionalità marocchina coinvolto in un reato fatto da altri: “Il tribunale si era dimenticato di questo ragazzo, era in carcere già da sei mesi. Ho combattuto per averlo in comunità (…). E’ venuto in comunità, c’è da 10 anni si è sposato con una ragazza anche lei marocchina, è di esempio e mi aiuta; fa quasi da educatore lui” (fonte www.psicoradio.it puntata 498).

 

“In Italia, nell’estremo sud della Regione Sardegna, nel Comune cagliaritano di Serdiana, conosco un posto che da 22 anni attua l’articolo 27 della Carta Costituzionale – (la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, ndr) come risultato dello spirito e della lettera di tutti i primi 52 articoli della prima parte dove il lavoro e i diritti personali sono non solo proclamati, ma anche definiti e difesi. È questa Costituzione che abbiamo difeso con il referendum costituzionale del 4 dicembre.

È anche avendo negli occhi e nel cuore La Collina di don Ettore Cannavera e la loro esperienza pluridecennale che siamo stati “costretti” a difendere l’orizzonte di civiltà contenuto per l’appunto nell’art. 27 quando, con parole semplici e solenni, si legge che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

La Collina è un luogo alternativo al carcere, dove minori che incidentalmente sono stati coinvolti da adulti in delitti e atti delinquenziali, vittime essi stessi, hanno la possibilità di passare il tempo della pena non nell’ozio che li educa a delinquere sempre di più, ma a guadagnarsi la vita con le loro mani e la condivisione di una esperienza comunitaria con educatori specializzati per imparare a lavorare, a vivere in società e ad assumersi le responsabilità della convivenza civile.”

La Collina è divisa in tre Collinein base ai delitti e alle pene comminate da un tribunale italiano con sette ospiti per ogni unità. Nessuno vive in ozio, ma tutti lavorano i 10 ettari di vigneti e uliveti, eredità che don Ettore e i suoi fratelli hanno donato alla Comunità per realizzare il mandato costituzionale di rieducare chi è rimasto coinvolto in delitti anche gravi. Oltre al lavoro, a turno gli ospiti gestiscono la quotidianità della casa (mangiare, pulire, lavanderia, ecc.), accompagnati 24 ore su 24 da adulti specialisti che condividono la loro stessa vita, gli stessi orari e le stesse incombenze.

Se questi ragazzi oziassero nelle carceri costerebbero allo Stato due milioni di euro, mentre alla Collina costano appena 200mila euro: lo Stato, cioè, risparmia l’80% dei costi. Su 100 ragazzi che escono dal carcere, 70 vi ritornano e qualcuno, appena girato l’angolo, perché il carcere genera la delinquenza, mentre dalla Collina solo quattro. Qui sta la prova che se lo Stato vuole vincere la delinquenza deve moltiplicare il modello de La Collina ed esportarla in tutta Italia. Ipotizzando 50mila carcerati, lo Stato risparmierebbe 800 milioni. Poiché questo denaro proviene dalla fiscalità generale, la rieducazione civile dei carcerati, specialmente minori, conviene ai cittadini perché pagherebbero meno tasse.

Per 21 anni la Regione Sardegna ha sostenuto economicamente La Collina di don Ettore Cannavera con un contributo che ultimamente era di € 200mila, quanto basta per pagare lo stipendio dei sette educatori specializzati con uno stipendio di € 1.200/1.300 mensili più gli oneri fiscali e contributivi. Per tutto il resto La Collina si mantiene con il proprio lavoro e la vendita dei prodotti, vino e olio (che possono anche essere ordinati online).” (fonte Il Fatto Quotidiano)

Tempo fa la redazione di Psicoradio (il programma radiofonico che si occupa di tematiche legate alla salute mentale e non solo) ha intervistato don Cannavera.

Don Cannavera: “I ragazzi diventano soci della cooperativa, ecco che vengono responsabilizzati (…) non è assistenzialismo dello stato, ma è il loro lavoro. C’è un ragazzo che ha ripreso la scuola, si è diplomato e sta lavorando fuori dalla comunità”

Redazione di Psicoradio: Chi sono i minori all’interno della comunità?

Don Cannavera: “La comunità è aperta a ragazzi anche non italiani, abbiamo marocchini, albanesi. Quelli che provengono dal carcere della Sardegna, arrivano da altri carceri italiani. Arrivano i ragazzi più problematici, come se il carcere della Sardegna fosse punitivo. Allora io, conoscendoli dentro il carcere, faccio questa proposta di affidamento, il magistrato è d’accordo. Si fa un progetto educativo.”

Psicoradio: “La parola detenuto minore è una parola fredda. Vorrei che ci facesse vedere, che ci raccontasse una di queste storie. La maggior parte dei ragazzi che arrivano in comunità, per che tipo di reato giungono da voi?”

Don Cannavera: “La maggior parte arriva per problemi diciamo di sopraffazione, per reati legati alla droga e per procurarsela. Ne abbiamo avuti novanta sino ad oggi, di cui dodici per omicidio, commesso con altri adulti (…). Tutti ragazzi che hanno espresso, a mio giudizio, disagio sociale, nell’essere accolti, riconosciuti, apprezzati. Lo fanno commettendo reato”.

Psicoradio: “Quello che dice mi fa ricordare “L’Odio”, un film sulle periferie francesi di vent’anni fa. Dove si parla proprio del senso di se trovato attraverso la violenza. Come se fosse l’unica possibilità di avere un valore. Cosa rimane di un ragazzo che ha commesso un reato grave come l’omicidio? Un ragazzo ancora giovane e aperto al mondo, che s’immagina un futuro, che magari sogna un amore?”

Don Cannavera : “Quando a un ragazzo gli si danno delle possibilità, lui recupera. Se le dovessi raccontare dell’ultimo che abbiamo avuto, che studia, lavora si è fidanzato. Nella comunità la cosa più importante è la relazione, far venir fuori dal ragazzo quello che noi abbiamo prima abbandonato, se non addirittura represso.”

Psicoradio: “Questo vuol dire che i ragazzi possono uscire? E come?”

Don Cannavera: “Certo, questa è la diversità. Hanno delle prescrizioni. Entro le nove devono rientrare a casa. Non possono frequentare pregiudicati, ne tossicodipendenti. Però possono andare a scuola, a lavorare, sotto controllo. Hanno un orario per uscire e rientrare. La comunità è aperta, a differenza del carcere; c’è la possibilità di invitare qualcuno a cena. C’è un giorno della settimana aperto a tutti, con attività culturali come la presentazione di un libro”

Psicoradio: “E chi viene da fuori a trovarli?”

Don Cannavera: “Ah ecco! Questa è un altra cosa importante. All’inizio c’era un po’ di diffidenza. Ma chi sono? Sono ragazzi del carcere? Una volta che cominciano a venire chiedono: ma è quello di cui il giornale ha detto che ha fatto un omicidio? Ma è un bravo ragazzo! Guarda com’è gentile e sorridente. Quello che bisogna abbattere e che si pensa che il minore che commette un reato sia un po’ un mostriciattolo. Eh (ride). Ma è una persona umana come tutti. Allora, nella relazione col mondo esterno, come dire, il mondo esterno che viene in comunità; e i ragazzi che escono nel mondo esterno! Quando ci sono attività esterne, come attività sportive, i ragazzi possono andare. Ci sono delle autorizzazioni date dal tribunale (…) con degli adulti che gli accompagnano, nei primi tempi. Poi possono andare anche da soli”

Psicoradio: “Non fuggono quelli che vanno da soli?”

Don Cannavera : “No, il cancello è aperto. C’è un pulsante e si apre. Perché non scappano? Perché hanno capito che questo è il sistema di vita, lo stile di vita risponde ai loro bisogni più profondi. Scappare per andare dove? Per fare che cosa? A volte li minaccio, ma perché non ve ne andate?! E sorridono.”

Psicoradio: “La sua comunità sta funzionando molto bene, costa molto meno del carcere e produce molto meno recidiva. Mi viene da dire che produce una cultura positiva, di accettazione e d’inclusione, ma perché non si riesce a trasformare il carcere minorile in questa direzione? Chi fa resistenza?”

Don Cannavera: “Fa resistenza il politico, che deve stare attento all’opinione pubblica. Tenga presente che secondo me, ne io ne lei lo siamo, la maggior parte della popolazione è forcaiola. A me lo dicono, ma perché quello lo tieni qui? Ha fatto un omicidio e tu lo tieni qui? Quello deve stare in carcere. Quanti ne sento. Allora ci vuole tutto un lavoro culturale, un po’ quello che fate anche voi, per far capire che non si nasce devianti, lo si è diventati.”

Nel febbraio 2018 don Ettore Cannavera è tra i 30 “eroi civili” e viene nominato dal presidente della repubblica Mattarella commendatore al merito della Repubblica italiana. «Per la sua preziosa opera di sostegno a persone in condizioni di marginalità, e in particolare a giovani e minori coinvolti in percorsi di reinserimento sociale»

Claudio Nappi

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