Sono rimasta in India due mesi e per poco non rischiavo di rimanerci con il visto scaduto (causa ritardo del treno e conseguente perdita del volo per Bangkok). Il mezzo di trasporto principale è stata una moto, una Yamaha verde e nera, che ha dovuto sopportare il mio peso, quello del mio ragazzo e dei nostri due ingombranti zaini, senza lasciarci mai a terra (anche un po’ grazie all’aiuto dei locali, sempre pronti ad aiutare a spingere la moto in caso di mancanza di benzina o addirittura a rifornirci con un po’ di carburante preso direttamente dal loro mezzo). Il secondo trasporto più usato è stato il treno, che descriverei un po’ come la metafora dell’India intera rinchiusa in alcuni vagoni.
La parola d’ordine per questo mio viaggio è stata “scomodità”, per quanto riguarda tutto: dai viaggi in moto su strade dalla pavimentazione discutibile, agli ostelli dove il letto era formato da un rigido asse di legno e una coperta che a malapena riusciva a mascherarlo, dove fare una doccia con l’acqua calda sembrava inconcepibile (“Solo docce fredde nel deserto”, mi disse una volta uno dei dipendenti di un ostello nella fortezza di Jaisalmer). C’è da aggiungere, però, che un paio di volte mi è capitato di rimanere a casa di due ragazzi indiani che hanno deciso, nonostante mi conoscessero da molto poco, di offrirmi tutto quello che potevano offrire: un letto, qualche birra, cibo a volontà, musica tradizionale e conversazioni interminabili sulla vita e sui nostri rispettivi paesi. Ancora una volta, l’India, soprattutto la sua gente, ti sorprende quando meno te lo aspetti.
Credo che l’India debba in qualche modo essere vissuta con calma e a lungo, prendendosi del tempo per metabolizzarla, cercando di rimanere il più vicino possibile alla vita quotidiana dei suoi abitanti, parlando con la gente e creando legami (i giovani, soprattutto, sono un pozzo di talento e ispirazione inesauribile). Fermarsi quante più volte possibile in qualche bancarella sperduta nel deserto, o in un villaggio sulla via per una grande città, dove il venditore o la venditrice preparano e servono chai invitandoti a sederti su un paio di sedie dall’aspetto instabile, con un sorriso e un interesse nei tuoi confronti, nonostante non parlino inglese, felici di poter comunicare anche solo coi gesti.
Sara Annecchino