Cartoline dall’India

“L'India assale, prende alla gola, allo stomaco. L'unica cosa che non permette è di restarle indifferente.”

Tiziano Terzani

Sono passati circa 6 mesi dal mio viaggio in India. I ricordi sono ancora piuttosto vividi.
Non dimentichi facilmente un posto come l’India: non tanto per ciò che vedi, che osservi, ma per quello che ti fa sentire, per quella strana sensazione allo stomaco che ti lascia, una volta partito (cercate di leggere quest’ultima frase senza ironia).
Non riesci a capire bene la motivazione, ma ad un certo punto l’India inizia a mancarti. Sì: mi manca. Mi manca, nonostante mi abbia portato alla disperazione in diverse situazioni. Mi manca, nonostante tutte le critiche che possa averle fatto, mentre ero lì. Ecco, riassumerei la mia esperienza in India, in questa breve espressione: “Nonostante tutto”. Nonostante il caos, lo sporco, le persone che ti fissano attentamente e a lungo, come non avessero mai visto un turista prima, nonostante la spazzatura per le strade di cui nessuno sembra volersi davvero curare, nonostante i venditori che ti guardano e pensano “soldi”. Ci sono talmente tanti piccoli dettagli di cui lamentarsi, che potrei stare qui a descriverli uno ad uno fino a domani, ma la verità è che l’India, seppur con tutti i suoi difetti, ti insegna a prendere ogni cosa con leggerezza e calma: ad un certo punto ogni cosa che fai e pensi, viene influenzata da questo nuovo stile di vita.

Sanjay Gandhi National Park di Mumbai

Immaginate di star guidando per le trafficate (termine riduttivo) strade di Mumbai: un tuk tuk a destra, una jeep a sinistra, quattro o cinque motorini di fronte e altri sei o forse di più, dietro di te. Non c’è possibilità di movimento, non esiste una corsia di sorpasso e se esiste a nessuno importa. Insomma, prendete le regole della strada alle quali siamo normalmente abituati e buttatele in un bidone. L’unica cosa che ho visto funzionare in maniera classica è il semaforo, per il resto tra i veicoli vale la regola del “più grosso”, o del “più veloce” . Ho assistito personalmente a una gara di sorpassi su una strada semi-sterrata tra un camion e un autobus sulla via per Varanasi, poco importa se ci sono macchine e motorini interessati a continuare il proprio tragitto senza rischiare la morte.
E il casco sembra essere un optional. I pedoni hanno la capacità di apparire magicamente tra i veicoli, nel tentativo di attraversare, con un’agilità e una sicurezza invidiabili, incuranti di sfidare la sorte.
Ecco, prendete questo spaccato di vita indiana: farebbe impazzire chiunque, no? Soprattutto noi noiosi europei. E invece, dopo la prima settimana in una situazione come questa, impari a prendere tutto con filosofia, a riderci su, addirittura a seguire le “loro” regole della strada e a trovarti anche piuttosto a tuo agio.

Tutti pensano che l’India sia il posto più spirituale che si possa visitare, dove si pratica yoga e si trova la pace interiore.
In un certo senso è vero, ma la calma interiore io l’ho raggiunta per motivi diversi.
Quando ti trovi di fronte a tante situazioni alle quali non sei abituato e che magari non riesci facilmente ad accettare, situazioni quotidiane nel paese in cui ti trovi, stai assistendo a quello che definirei un incontro/scontro culturale, in cui ci sei tu -con il tuo modo di vivere- e c’è lo stile di vita di altre persone che prima non avevi considerato.
C’è questo mondo, del quale avevi sentito parlare, principalmente in maniera stereotipata, nei film o nei telegiornali, ma che non avevi mai realizzato esistesse veramente, così pieno di sfumature positive e negative.
E così arriva la parte difficile: accettare questo nuovo mondo e prenderlo per ciò che è, con la libertà di criticarlo in maniera costruttiva, senza mai dimenticare la cultura dalla quale si proviene.
Solo un pizzico di apertura mentale in più.

Camminare o guidare fianco a fianco ad una mucca, evitandola con rispetto, e passare sopra le sue feci per strada. Notare bambini nudi o semi-nudi giocare tra la fanga (e probabilmente altre feci non ben identificate), fare i propri bisogni per strada o nei campi o dove capita. Rimanere seduti in treno per quattordici ore di fila perché è in ritardo di diciotto, tra una sfilza infinita di venditori che non abbassano il tono di voce neanche se sono le undici di sera e tu stai lì sdraiato, su un letto rigido, con un ventilatore non richiesto puntato sulla faccia, al freddo, nel tentativo di addormentarti come puoi.

Ma non è tutto bianco e nero, ci sono tante sfumature da tenere presenti quando si viaggia in un paese contraddittorio e caotico come l’India. Le esperienze scomode me le aspettavo, ciò a cui non ero per niente preparata erano quelle positive: la bellezza e la varietà infinita di paesaggi e di volti, l’ospitalità travolgente delle persone, una cucina sorprendentemente buona, vegetariana ed estremamente piccante. Se si cerca a fondo, si possono scovare luoghi intrisi di pace anche in mezzo al caos delle città, come il Sanjay Gandhi National Park a Mumbai, dove si può respirare aria fresca e si possono vedere famiglie di scimmie saltellare qua e là mangiando frutta generosamente offerta dai locali.

Come il lago sacro di Pushkar (famosa per la fiera dei cammelli), attorno al quale è permesso camminare solo senza scarpe e dove, per un po’, si riesce a star lontani dalla confusione del mercato (ma attenzione ai finti preti bramini, che vi attirano con la scusa di voler celebrare un rito religioso di benvenuto per poi chiedervi in cambio del denaro).

Fiera dei cammelli di Pushkar

Poi c’è l’osservatorio astronomico Jantar Mantar a Jaipur (costruito nel diciottesimo secolo e divenuto patrimonio UNESCO) dove, passeggiando tra prati e incredibili architetture, puoi divertirti a calcolare con quanta esattezza l’enorme monumento adibito a meridiana suggerisce l’ora del giorno. Infine ci sono le scontate ma imperdibili spiagge dal sapore tropicale di Goa, che neanche la presenza dei turisti o le inaspettate piogge monsoniche possono rovinare, e il complesso sacro Bada Bagh (letteralmente “grande giardino”), poco lontano da Jaisalmer, dall’atmosfera magica con i suoi memoriali dorati (chhatris) dedicati a diversi Maharaja.

Complesso sacro Bada Bagh vicino a Jaisalmer

Sono rimasta in India due mesi e per poco non rischiavo di rimanerci con il visto scaduto (causa ritardo del treno e conseguente perdita del volo per Bangkok). Il mezzo di trasporto principale è stata una moto, una Yamaha verde e nera, che ha dovuto sopportare il mio peso, quello del mio ragazzo e dei nostri due ingombranti zaini, senza lasciarci mai a terra (anche un po’ grazie all’aiuto dei locali, sempre pronti ad aiutare a spingere la moto in caso di mancanza di benzina o addirittura a rifornirci con un po’ di carburante preso direttamente dal loro mezzo). Il secondo trasporto più usato è stato il treno, che descriverei un po’ come la metafora dell’India intera rinchiusa in alcuni vagoni.

La parola d’ordine per questo mio viaggio è stata “scomodità”, per quanto riguarda tutto: dai viaggi in moto su strade dalla pavimentazione discutibile, agli ostelli dove il letto era formato da un rigido asse di legno e una coperta che a malapena riusciva a mascherarlo, dove fare una doccia con l’acqua calda sembrava inconcepibile (“Solo docce fredde nel deserto”, mi disse una volta uno dei dipendenti di un ostello nella fortezza di Jaisalmer). C’è da aggiungere, però, che un paio di volte mi è capitato di rimanere a casa di due ragazzi indiani che hanno deciso, nonostante mi conoscessero da molto poco, di offrirmi tutto quello che potevano offrire: un letto, qualche birra, cibo a volontà, musica tradizionale e conversazioni interminabili sulla vita e sui nostri rispettivi paesi. Ancora una volta, l’India, soprattutto la sua gente, ti sorprende quando meno te lo aspetti.

Credo che l’India debba in qualche modo essere vissuta con calma e a lungo, prendendosi del tempo per metabolizzarla, cercando di rimanere il più vicino possibile alla vita quotidiana dei suoi abitanti, parlando con la gente e creando legami (i giovani, soprattutto, sono un pozzo di talento e ispirazione inesauribile). Fermarsi quante più volte possibile in qualche bancarella sperduta nel deserto, o in un villaggio sulla via per una grande città, dove il venditore o la venditrice preparano e servono chai invitandoti a sederti su un paio di sedie dall’aspetto instabile, con un sorriso e un interesse nei tuoi confronti, nonostante non parlino inglese, felici di poter comunicare anche solo coi gesti.

 

Sara Annecchino

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