Pietro Bartolo: un viaggio tra crudezza e complessità

Pietro Bartolo: un viaggio tra crudezza e complessità

Lampedusa è un’isoletta piccola: 20 km quadrati, a 70 miglia dalla costa africana e 120 miglia da quella siciliana, il cosiddetto “Continente”. E’ un’isola di pescatori, una zattera (forse è meglio dire un salvagente) in mezzo alle rotte migratorie. Rifugio storico per tutti quelli che hanno navigato nel Mediterraneo, dai Fenici ai Turchi, Cartaginesi, Egiziani, Arabi: tutti sono stati accolti da quest’isola straordinaria. Viene definita la porta di Europa, l’ingresso, come ha voluto rappresentare Mimmo Paladino: una porta senza uscio, sempre aperta, che da 28 anni si occupa del fenomeno dell’immigrazione

Racconta di questo fenomeno (e non “problema”, come siamo abituati a sentirlo chiamare), il Dott. Pietro Bartolo, Dirigente Medico del presidio Sanitario di Lampedusa, “lampedusauro” figlio di pescatori, che si occupa ogni giorno della emergenza migranti: “ Non pensate che questo fenomeno sia il più importante del mondo: forse è il più piccolo. Me ne occupo personalmente dal primo sbarco avvenuto nel 1991. In questi anni ho guadagnato 2 record: quello di aver visitato più di 350.000 persone ed un altro, infame, di cui mi vergogno molto. E’ un primato di cui dovremmo vergognarci tutti, Italia ed Europa, e forse il mondo intero: sono il medico con più ispezioni cadaveriche del mondo. Mi dicono pure che sono bravo, sapete? (A queste parole, segue una lunga pausa di silenzio)

In tutti questi anni ho visto tante cose orribili. Quando succede qualcosa di brutto in mare, noi diciamo che c’è “o’ fuocoammare”. Un mare che per noi è tutto: vita, sostentamento, bellezza. Ora è un cimitero, un mare di morte. Un mare bellissimo e crudele. Quello che succede nel Mediterraneo, e in Libia in particolare, quella Libia che ultimamente è stata da qualcuno definita un “porto sicuro”, è qualcosa di indicibile. Quella Libia dove le donne vengono tutte violentate. Tutte. Non ha importanza se bambine, vecchie, belle o brutte: io ne ho le prove. E questo accade non per il desiderio sessuale, ma per l’umiliazione: lo fanno davanti a tutti.

Una donna era paralizzata dalla vita in giù, da sei mesi non muoveva più le gambe. L’avevano violentata, violentata, violentata. Ed era accompagnata da un bambino, il figlio, che si era preso cura di lei in quei sei mesi. E quando ho detto alla mia infermiera di lavarlo, poiché era tutto sporco e pieno di pidocchi, poco dopo lei è tornata e mi ha detto: “Dottore non è un maschietto, è una femminuccia! Guardi cosa le abbiamo trovato dentro la vagina”. Aveva un rotolo di soldi, tenuti da un elastichino. Li nascondeva dentro di sé… una bambina di 4 anni. E come mi avvicinavo per mettere la flebo alla mamma, lei subito mi aggrediva… chissà cosa aveva visto, nella sua breve vita… Così le abbiamo dato dei biscotti per farla mangiare: li ha presi, li ha triturati con le manine e li ha dati alla mamma, come un uccellino. Poi l’abbiamo visitata: era stata violentata anche lei…

MALATTIE

Ci dicono anche che sono pericolosi perché portano malattie contagiose. Sapete quali sono queste malattie? Ipotermia e disidratazione. Il resto sono solo bugie inventate per spaventare. Ultimamente ho visto una nuova malattia, l’ho chiamata malattia del gommone: sono delle ustioni chimiche da contatto con il carburante, precisamente la benzina.

I gommoni vengono spinti da un motore a benzina fuoribordo da 10/20 cavalli al massimo, che deve essere ricaricato continuamente: durante questa operazione della benzina cade sul fondo dei gommoni miscelandosi con l’acqua, diventando così insidiosa. Il 90% degli ustionati muore;  chi sopravvive ci racconta che addirittura prova piacere, perché quella reazione chimica lenta e subdola provoca loro un po’ di calore. Ma nessuno dei media e dei politici, o degli addetti alla cosiddetta “accoglienza”, racconta queste cose.

NELLA STIVA

Era una sera d’inverno. Mi chiamarono al telefono: “Dottore guardi che stiamo arrivando con 200/300 persone, ci sono delle donne e dei bambini”. Così, vado in banchina con i miei collaboratori ad aspettarli, pronto a salire a bordo per fare tutti i controlli del caso: nessuno può salire a bordo o scendere prima che un medico verifichi se ci sono delle malattie infettive gravi e importanti che possano far preoccupare il territorio nazionale e europeo. Quindi salgo su questo piccolo peschereccio di 12 metri. A bordo 250 persone. Controllo: non c’erano malattie gravi, stavano tutti bene, ma vedevo che si agitavano, piangevano. C’era qualcosa che non andava. Così do il nullaosta a scendere e iniziare le visite singole, e un vigile del fuoco mi dice: “Dottore, giù nella stiva c’è qualcosa che non va”. Scendo giù nella stiva, al buio, e come metto i piedi per terra mi sembra di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del telefono e mi rendo conto che quella stiva era piena di sangue: non erano cuscini, ma corpi! Tutti giovani, il più grande non aveva più di 20 anni, tutti morti. Stavo camminando su cadaveri di persone, ragazzi… Mi sono sentito male. Sono uscito all’esterno, veloce come un proiettile;  ho cominciato a vomitare, a piangere. Non sapete quante altre volte ho pianto. Non lo potete immaginare. Quante altre volte ho avuto paura, anche se sono un medico. Poi un vigile del fuoco è entrato al posto mio: li legava e noi li tiravamo su. Erano 25. Ammazzati. Mi hanno raccontato quello che era successo e perché c’era tutto quel sangue nella stiva: quando sono saliti sul peschereccio, nel porto libico, i trafficanti, per metterne il più possibile, hanno fatto entrare i primi 50 nella stiva. Erano i più magri, i più agili. Il patto era che, una volta usciti dal porto, li avrebbero fatti uscire per respirare. E così è successo: i primi 25 sono venuti fuori, poi la barca ha iniziato ad avere problemi di stabilità, così hanno impedito agli altri di uscire. Come? A bastonate in testa, sulle mani. E quando tutti insieme hanno iniziato a pressare perché avevano bisogno di aria (quella era una ghiacciaia), i trafficanti hanno divelto la porta di una cabina, l’hanno messa sulla botola e ci si sono seduti sopra. Nel giro di 10 minuti sono morti tutti per asfissia.

Quando ho fatto l’ispezione cadaverica non avevano più i polpastrelli, le unghie, ma frammenti di legno infilzati nella parte restante delle dita. Quei ragazzini avevano cercato di crearsi una breccia per uscire, per respirare, ma non ce l’hanno fatta. Sono morti, sono morti tutti senza nessun rispetto per la vita e la dignità umana. 

E sopra c’erano i papà, le mamme, le sorelle, che non dovevano parlare. Ecco perché erano agitati, perché stavano male. Non dovevano reagire: quelli che hanno reagito sono stati buttati in mare. Durante questi anni ho avuto momenti di grande crisi, di debolezza. Ho pensato di abbandonare, di lasciar perdere. Perché dovevo vedere tutto questo? Ma ci sono anche le cose belle, che sono importanti per un uomo, per un medico. Sono cose che danno la forza di andare avanti.

KEBRAT

Nel 2013 ero in banchina, avevamo avuto due sbarchi durante la notte, più di 900 siriani. Dalla capitaneria… “Dottore venga in banchina che c’è stato un naufragio”. La prima ad arrivare è stata una barca di lampedusani. A bordo un’amica, Grazia, mi dice: “Pietro, è successo un macello. Noi ne abbiamo presi solo 49 vivi! Non potevamo prenderne di più perché stavamo affondando. Stavano male, erano in ipotermia, unti di gasolio”. Subito dopo è arrivato un altro peschereccio, sempre di un lampedusano. A bordo, un altro amico, Domenico, che mi dice: “Pietro ne ho presi solo 17 vivi, tutti maschi”. Domenico aveva preso anche 4 cadaveri. Così sono salito a bordo per fare l’ispezione; poi sono saliti anche i vigili del fuoco per mettere i cadaveri nei sacchi. Mentre li stavano chiudendo, ho chiesto di verificare il decesso, cosa che faccio sempre. I primi 3 erano sicuramente cadaveri, erano neri per la rigidità cadaverica, da più di due ore. La quarta invece era una donna, non ancora rigida. Allora mi sono detto: “Sarà morta da poco”. Così ho controllato il polso: mi è sembrato di sentire un battito. Poi ne ho sentito un altro, molto debole, ma c’era. L’abbiamo portata di corsa al poliambulatorio, l’abbiamo intubata, ventilata, e dopo 10 minuti il cuore di Kebrat ha ripreso a battere regolarmente. Ho saputo che Kebrat è andata a vivere in Svezia.

BAMBINI VESTITI PER LA FESTA

Poi sono tornato in banchina e ho trovato 111 sacchi; ho iniziato a fare le ispezioni cadaveriche. Speravo che almeno nel primo sacco non ci fosse un bambino. Apro e trovo un bambino piccolo, di due anni, con dei pantaloncini rossi e una maglietta bianca. Sembrava vivo, così ho provato a scuoterlo, a svegliarlo. L’ho guardato intensamente negli occhi per vedere se ci fosse un minimo di vitalità, come Kebrat. Ma quel bambino era morto, e non c’è stato niente da fare. C’erano davvero tanti bambini in quei sacchi, tutti vestiti a festa, con le treccine e le scarpette, tutti colorati. Le mamme li avevano preparati per dire “Vedete, i nostri bambini sono come i vostri”.

Dopo 15 giorni di ispezioni, questo è stato il risultato: 368 bare. Erano 367,  per la precisione: in una delle bare, c’era una donna ancora legata al suo bambino dal cordone ombelicale. Aveva partorito durante il naufragio per la contrazione tetanica dovuta all’asfissia cerebrale. Dopo l’ispezione cadaverica non me la sono sentita di staccarli, così li abbiamo messi insieme.

Queste sono solo alcune delle cose che ho visto. Questo non è un film, è la realtà, ma nessuno ne deve parlare…  Sono persone, non numeri. Sono bambini, donne, uomini. E chi racconta tutto questo? Nessuno. Ecco perché devo raccontare, perché ho avuto il privilegio di essere un testimone, e ho il dovere di dire la verità.”

Tratto da una testimonianza presso lUniversità degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Ester Giamberini

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