MIGRANTI, QUELLO CHE DI MAIO NON DICE SUI SOCCORSI IN MARE

MIGRANTI: QUELLO CHE DI MAIO NON DICE

Questo sistema fa strame dell’etica e del diritto internazionale, per il quale è vietato “riaccompagnare” migranti in territori insicuri come la Libia. A ulteriore disonore dell’Italia, il “codice Di Maio-Salvini” assegna ai nostri guardacoste il ruolo di negrieri, obbligandoli a ri-arrestare esseri umani scappati dalla Libia, dove la maggior parte era detenuta in condizione di semi-schiavitù, e a favorirne l’internamento in campi di prigionia governativi la cui legalità è perlomeno dubbia (collassato lo Stato e lo stato di diritto, il governo pro-forma di Tripoli può pretendere di detenere stranieri per immigrazione clandestina, per giunta sine-die, soltanto perché glielo chiedono gli europei, Roma in testa?).

Tutto questo scaraventa in Italia due problemi. Il primo riguarda i nostri guardacoste: intendono obbedire a ordini palesemente contrari al diritto umanitario? E se si rifiutassero, sarebbero passibili di arresto o di licenziamento, o al contrario, come un tempo i soldati israeliani, si vedrebbero riconosciuto il diritto a sottrarsi a un ordine profondamente immorale?

Il secondo problema riguarda chiunque, di sinistra o di destra, giudichi indecente e anti-italiano il “codice Salvini-Di Maio”. I migranti che potrebbero arrivare dalla Libia in Italia (se Roma domani aprisse i confini) non sarebbero certo i 700mila di cui si legge, ma al più 100mila e rotti (secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Oim, quelli arrivati in Libia per emigrare in Europa erano 150mila a metà del 2017, ma nel frattempo molti sono riusciti a tornare indietro). Centomila migranti, diciamo tremila a testa per i Paesi della Ue, sono nulla. Ma altri 100mila si precipiterebbero in quel varco se fosse sicuro; e dopo quei 100mila, altri 100mila; e a quel punto, per esempio, milioni di giovani egiziani cercherebbero di emigrare per sottrarsi alla frusta della cleptocrazia militare (un esodo che lo stesso Al Sisi potrebbe facilitare, come ogni tanto adombra agli interlocutori europei, con ammiccamenti sottilmente ricattatorii).

Ecco, è un problema reale al quale va offerta una soluzione pratica (certo non lo stolto “aiutiamoli a casa loro“, ovvero aiutiamo i regimi autoritari e corrotti che spingono la popolazione a emigrare). E anche di questo dovremmo cominciare a discutere con onestà.

Intervistato da Il Fatto quotidiano, il vicepremier Luigi Di Maio ha così sintetizzato le regole in base alle quali il governo italiano deciderà la sorte dei migranti che fanno rotta sull’Italia: “Se la Guardia costiera libica vuole intervenire nelle acque della sua Sar, bisogna lasciarla fare. Se invece ci chiede una mano, la aiutiamo con le nostro motovedette, ma favorendo comunque l’imbarco sulle navi libiche”.

Il significato autentico di queste frasi è assai meno innocuo di quanto possa sembrare. Per intenderlo occorre tener a mente alcuni dati di fatto, convenientemente taciuti dal vicepremier. Innanzitutto, la Guardia costiera libica di fatto è la Marina del Viminale, che l’ha resuscitata, riorganizzata, addestrata, armata e che le fornisce la strumentazione (probabilmente anche le paghe, a giudicare dalle rimostranze dei guardiacosta nei confronti del governo italiano).

In secondo luogo, questa Marina si compone di quattro motovedette, un paio delle quali spesso in avaria. Neppure se oggi stesso avesse la disponibilità degli altri 12 natanti promessi da Matteo Salvini (gommoni, secondo i libici) quella Guardia Costiera sarebbe minimamente in grado di controllare la zona Sar sulla quale Tripoli adesso inopinatamente rivendica la propria esclusiva giurisdizione, un tratto di mare immenso che si spinge per una profondità di quasi 100 miglia marine da una costa lunga 1760 chilometri. Infine, Sar sta per Search and rescue, ricerca e soccorso di natanti in difficoltà. Nel rivendicare quella giurisdizione esclusiva, il governo libico (incapace perfino di esercitare una piena sovranità sul territorio della capitale) non pensa affatto a naufraghi da salvare: vuole semplicemente affermare il proprio diritto di rifiutare l’ingresso nella Sar alle Ong del mare, come gli chiedono gli europei.

Così decodificato, il “codice Di Maio-Salvini” si legge in questo modo: le Ong non saranno più ammesse in quei mari, non potranno trasportare migranti e neppure salvare naufraghi. I barconi a rischio di affondare non saranno soccorsi, se non dalla Guardia costiera libica (che però non è in grado) o, su richiesta libica, dalla Guardia costiera italiana, che dovrà fare prigionieri i naufraghi e scaricarli in Libia, nei campi di detenzione gestiti da milizie filo-governative. Risultato prevedibile: il numero degli affogati aumenterà a dismisura, sia per l’assenza delle Ong umanitarie, sia perché lanciare un sos prima di Lampedusa comporterà per i migranti il ritorno coatto in Libia.

Abbiamo risposto sempre, sempre rispondiamo e sempre risponderemo a ciascuna chiamata di soccorso”. Il comandante generale della Guardia Costiera, l’ammiraglio Giovanni Pettorino, in un’intervista all’Ansa, cancella ogni dubbio su quale è e sarà il comportamento dei suoi uomini. “Noi operiamo sulla base della Convenzione di Amburgo per la ricerca ed il soccorso in mare, che è del 1979 ed è nata per episodi che accadono una volta ogni tanto, non all’ordine del giorno. Quello che sta accadendo adesso è invece un esodo epocale, biblico, con un intero popolo che si sposta o tenta di spostarsi via mare in un tratto breve ma pericoloso, con mezzi inadeguati. Dunque, occorre rivedere la Convenzione”.

Guido Rampoldi

Giornalista de’ Il fatto quotidiano

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