Ero stato elemento attivo e trainante dei gruppi non-violenti bolognesi. Ero musicista studente del Liceo Galvani di Bologna. I periodi storici culminavano negli anni ’70, anni plumbei per il loro colore, il loro ricordo e la loro consistenza esplosiva). Il 19 di Marzo è un timbro che -per forza di cose- stampa questi due incancellabili della vita italiana: vita vera e reale, non certo vita virtuale o di sterile, egoica politica.
Don Diana ci lascia nel ’94, Marco Biagi nel 2002. Don Giuseppe viene abbattuto certamente dalla mano malavitosa dei casalesi. Personalmente, sono meno certo che la mano che spara a Marco sia politica, idealista, violentemente proletaria. E spiego perché.
Il primo motivo è che -sin da studente- non sono mai riuscito a riconoscere una mano rivoluzionaria nelle brigate rosse. Non l’ho riconosciuta neppure come matura e cosciente. Vi ho sempre visto un vizio congenito, un vizio di genitura, un vizio che impediva e impedisce a coloro che si proclamano comunque rivoluzionari, di capire il senso dei gesti che loro definiscono rivoluzionari. La rivoluzione, in sé e per sé è un moto che vuole cambiare le posizioni, ma che alla fine dei cicli, riporta tutto allo stato iniziale: vi saranno nuove stelle, nuovi pianeti, ma le cose si riposizioneranno in modo tale che i nuovi “posizionati nella scacchiera dominante” scontenteranno masse di persone, discendenti forse -e spesso- da coloro che tragicamente sono stati eliminati. Lo sostenevo da giovanissimo e continuo a ritenerlo un fatto inevitabile e persistente nella storia. Parallelamente, lo stesso Marx afferma che ogni Sistema genera i germi della propria autodistruzione. Direi che questo è spacciatamente distruttivo, inevitabile, in piena cancellazione di ogni speranza. Personalmente, mi limito ad affermare che i cambiamenti ottenuti con la violenza, portano ad una situazione simile al pre-cambiamento. Non c’è controprova del contrario, poiché non abbiamo avuto una completa rivoluzione non-violenta.
Lo pensavo e lo penso, sostenuto dal libretto verde di Gandhi, da quello di Martin Luther King. E lo sostenevo anche a fronte dei “Lottatori Continui” come Enrico Pettazzoni, che -dopo i due anni trascorsi in altra classe con Marco Biagi- per due anni mi fu piccolo compagno di classe, anche di banco, al liceo. O a fronte delle pantere nere come il peraltro tenerissimo, affabile e divertente compagno (anche lui di banco) Ferdinando Dolcini, sostenitore di un altro leader di colore, duro e deciso alle estreme conseguenze, come Malcolm X. Pettazzoni è poi divenuto un noto economista, mentre Ferdi, artista a tutto tondo, cercò di riuscire a vivere, non riuscendoci quasi mai, fino a lasciarsi trovare infartuato, appoggiato alla ruota della sua bicicletta: buon, vecchio “Lungo”, alto amico, flautista, disegnatore di grande talento.
Dunque, non ho mai creduto ad una genuina matrice politica delle brigate rosse. Non l’ho creduto per Moro, non in tempi ancor più confusi come quelli che videro il martirio di Marco Biagi. Don Diana, fu sicuramente preso dalla greve mano casalese, non ideologica, neppure per ruolo o per copione.
Tutti e due avevano dimostrato di essere un pericolo per un potere che non voleva -e mai vuole- accettare intromissioni.
Tutti e due venivano dal liceo classico (uno da seminarista, l’altro da laico), per poi avviarsi su due binari più marcatamente diversi: teologia l’uno, giurisprudenza l’altro. A 24 anni, Peppe diviene Don, Marco diventa prof. come oggi amano dire gli studenti: a Bologna, poi -successivamente- a Ferrara Modena e in Calabria.
Tutti e due attivi ed innovatori, pur in campi e territori diversi: tutti e due a dar fastidio, un tremendo fastidio che porterà a decisioni drastiche ed estreme di eliminazione, di soluzione finale.
E se abbiamo parlato di tempi confusi, dobbiamo rimarcare il comportamento bieco, offensivo, scriteriato del ministro Scajola che aveva negato la scorta a Marco Biagi, dotandone invece il pregiudicato Dell’Utri e l’inquisitissimo Previti. Scajola -dopo l’assassinio di Biagi non mancò di offenderlo, insultandolo volgarmente in occasione del G8 di Genova.
Non da meno, fu certa stampa della Campania, che si attrezzò a lanciare palate di fango contro Don Peppe, esattamente il giorno dopo il suo assassinio.
Marco muore al portone di casa. Lo colpiscono i sei proiettili dei brigatisti mascherati. Tornava dall’università di Modena. Privo di scorta (i suoi assassini lo sapevano e per questo si erano mossi ed organizzati), fece il percorso da stazione a casa in bicicletta (!!!). “Avesse avuto la scorta, non avremmo mai provato, non saremmo mai riusciti nel nostro blitz”
Nel 2006, la Cassazione confermò l’ergastolo per Diana Blefari Melazzi, Roberto Morandi, Nadia e Marco Mezzasalma, riducendo a 21 anni di reclusione la condanna per Simone Boccaccini, riconoscendogli le attenuanti generiche. Per Desdemona Lioce fu automatica la conferma dell’ergastolo, in quanto non aveva fatto ricorso in Cassazione.
Don Peppe viene trucidato dai cinque colpi del camorrista Quadrano in sacrestia, poco prima di messa. Nunzio De Falco, inopportunamente difeso da Gaetano Pecorella, (ex Potere Operaio e poi uomo politico di Berlusconi), allora presidente della commissione Giustizia della Camera, è stato condannato in primo grado all’ergastolo il 30 gennaio 2003 come mandante dell’omicidio Don Diana. Giuseppe Quadrano, autore materiale dell’omicidio, consegnatosi alla polizia, iniziò a collaborare con la giustizia e per questo ricevette una condanna ridotta a 14 anni. Il 4 marzo 2004 la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo anche Mario Santoro e Francesco Piacenti come coautori dell’omicidio.
Marco e Giuseppe. Il ricordo è vivo e -come olio- fa scivolare fango e insulti: il fango della stampa serva della camorra, gli insulti di un ministro a sua insaputa, servo del denaro e del potere.
Essi -stampa e ministro- sono testimoni a se stessi, giudici a se stessi.
Marco e Giuseppe rimangono incorrotti, ancora oggi e sempre.
Alois Walden Grassani