FOIBE, il ricordo di una nonna

FOIBE: il ricordo di una nonna, allora ragazzina

Intervista di Ester Giamberini a Lidia De Marin, 87 anni. Profuga, moglie, madre, nonna. Nata a Dignano l’08 novembre del 1931, provincia di Pola, Istria. Madre Tabacchina e padre Tuttofare, ferito di guerra nella battaglia sull’Isonzo, un fratello maggiore di nome Mario.

Ester Giamberini – Nonna, raccontami. Perché tu e la tua famiglia avete lasciato la vostra terra, la vostra casa?

Lidia De Marin – Mia mamma diceva che non saremmo stati lì neanche un minuto di più. Non si poteva. Quando sono arrivati i partigiani slavi, i “Titini”, ce l’avevano a morte con noi italiani. Dicevano: “Quando vinceremo noi domanderete il pane in slavo!”, ma chi sapeva parlare lo slavo? L’Istria è sempre stata una terra di tante etnie: Austriaci, Italiani, Jugoslavi. Io stessa da ragazzina ne ho visti passare tanti: Tedeschi, partigiani italiani, Americani… mai nessuno però come loro. I Titini erano cattivi, hanno fatto tante cose (sospira).

E- Quando è iniziato tutto?

L- Mi ricordo che nel ’43 ero in colonia, nel centro dell’Istria, quando si diceva che la guerra era finita. Col cavolo che era finita, da noi era appena incominciata! Prima di tutto perché sono arrivati i tedeschi, e naturalmente ci sono stati problemi: tanti ragazzi sono andati a finire in Germania, e non tutti sono ritornati. Poi nel ’45 sono arrivati i partigiani italiani, giustamente…(si corregge) No giustamente un cavolo! Credevamo che da quel momento sarebbe stato tutto diverso, e invece non è affatto stato così.

In città di Pola per fortuna sono rimasti solo 40 giorni, poi sono sbarcati gli Americani così che sono stati costretti a lasciare la città, e tutti noi abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Credevamo che se ne sarebbero andati definitivamente, e invece no, hanno fatto il “posto blocco” fuori Pola così che c’erano due posti di blocco da dover passare per poter entrare e uscire dalla città, uno partigiano e uno americano. Noi abitavamo a Dignano, fuori città, così i miei genitori per poter andare a lavoro dovevano passare entrambi i blocchi. Andando e ritornando. Gli Americani facevano alla svelta, i “Drusi” invece, noi chiamavamo così i partigiani, una barba di Noè! Mi ricordo che i miei genitori non c’erano mai, partivano presto e tornavano molto tardi a casa.

Che ti dovrei dire? Credevamo che fosse tutto diverso, questo arrivo dei partigiani italiani, invece non sono stati poi tanto diversi dai Titini; gli jugoslavi però erano cattivi come la peste. Sono stati…come vorrei dire… rastrellamenti, deportazioni…

E- In che senso? Ti ricordi degli episodi in particolare?

L- Oh si, questa cosa me la ricorderò finché campo. Ti parlo sempre del ’45, avevo poco più di 14 anni e, sai come succede, la curiosità dei ragazzi… Sono andata nella piazza del paese, a Dignano.(prende tempo) Non so perché ma mia mamma, forse se lo sentiva, non mi voleva lasciare andare in piazza quel giorno, ma io sono andata lo stesso. Quando sono arrivata, la piazza era piena di gente e sul palazzo della pretura, alla finestra, hanno messo queste due persone: uno era slavo e uno italiano. E quelli che li avevano portati lì gli urlavano: “Discolpati davanti al popolo”. E il popolo, cretino, da sotto: “A morte!” Come potevano discolparsi, poretti, che li avevano già pestati a sangue. E poi di cosa avrebbero dovuto discolparsi? Mi ricorderò sempre questo cretino di popolino imbecille che gridava: “A morte!”.

Poi, dopo un po’, li hanno presi e ritirati dalla finestra. ‘Speriamo che li lascino in carcere’ ho pensato io, da ragazzina ingenua. Invece poco dopo li hanno portati fuori, nella piazza, li hanno picchiati a morte e li hanno messi su un carretto. C’era uno del paese, schifoso, che me lo ricorderò finché campo, che guidava il carretto con questi “trofei” in bella mostra, e mentre passava urlava: “Carne da macello!”(Fa una pausa). Me lo ricordo come fosse ieri.

Poi li hanno infilati con questo carretto sotto un porticato, e la notte sono morti. C’era tanto odio tra la gente, la guerra aveva incattivito tutti.

Come è successo a Vergarola, quando eravamo ancora sotto gli Americani. Questo odio degli jugoslavi nei confronti degli italiani c’è sempre stato.

Quel giorno gli italiani avevano organizzato una festa sul mare, in pineta, per l’italianità. Nel mentre della festa, mentre era pieno di famiglie e bambini, i Titini hanno fatto scoppiare delle bombe lungo tutta la pineta facendo un sacco di morti, non so quanti di preciso, ma tanti, soprattutto bambini. Mi ricordo che ero all’ospedale quella volta, e un dottore portava in braccio un bambino piccolo piccolo, morto. Questo medico, Minichetti si chiamava, ebreo, un bravissimo chirurgo, quella notte aveva perso un figlio, anche la sua famiglia era quella festa, ed era rimasto ugualmente tutto il pomeriggio e tutta la notte ad operare in sala operatoria, pur sapendo che gli era morto un figlio. Anche lui è venuto via poi, gli hanno fatto anche una lapide commemorativa. Mi ricorderò sempre quando c’è stato il funerale quel giorno: c’era un corteo che partiva dall’ospedale e veniva giù verso il cimitero, e c’era questo vecchio anziano che seguiva il corteo, e tutti dietro. E’ stata veramente una cosa straziante!

Quanti morti, quanti feriti, quanti bambini morti! Per cosa? Per spregio. Ormai l’altro non era più un essere umano, ma una bestia da punire nel peggiore dei modi.

E- Anche qualcuno dei tuoi cari è stato vittima di questo odio?

L- Nessuno dei miei parenti stretti per fortuna è stato preso, ma mi ricordo questo. Il padre di Gianna (la cugina) era già libero a Trieste, si era messo fascista proprio all’ultimo secondo, e stava tornando al paese perché sua moglie aspettava questa bambina dopo tanti anni di matrimonio. Così lui e un altro che abitava vicino a noi, anche lui padre di due bambine, sono tornati al paese: non avevano neanche messo piede in casa che li hanno presi subito, tutti e due. Mi ricordo che mentre lo stavano portando via diceva alla mia mamma: “Ciao cugina…”. Giovanni si chiamava. “Giovanni!”, gridava mia mamma correndogli dietro lungo la strada di casa, e io con lei. E lui ripeteva: “Ciao cugina!”…

Basta. Mai più visto. Lui è sicuramente andato a finire lì (si riferisce alle foibe).

Sono successi tanti episodi come questo, non si poteva stare sotto di loro perché erano talmente…anche nel centro dell’Istria hanno fatto di tutto, le foibe le hanno riempite. Come la storia di Norma, una ragazza che hanno preso, legato, stuprato in cinque e poi gettata dentro ancora viva. E ce ne sono tante di storie così, tante tante tante…Sono stati veramente atroci, non ci posso neanche pensare! E mia mamma disse: “Io sto qua? Neanche morta!” Così quando ci sono state le opzioni votò per l’Italia, ed eccomi qui…

E- A cosa era dovuto questo odio così grande secondo te?

L- La cattiveria della guerra, il sopruso… si sentivano potenti dopo la guerra; il fascismo ha fatto tanti danni, e quando è finito loro si sono vendicati su persone innocenti che non meritavano tutto questo. Tante persone sono morte proprio per il gusto della cattiveria. Come i tedeschi hanno portato tante persone nei ghetti, così è successo anche lì. Non solo in Istria, anche in Dalmazia, Trieste, Zara, tutta la parte che era Italia. Lo posso dire perché l’ho visto con i miei occhi, tutto quello che ti ho raccontato prima sono cose che mi hanno sconvolto.

Tanta gente è venuta via. Non si poteva resistere, non si poteva stare. Non era più casa.

Noi più che la perdita di persone care, a parte Giovanni, abbiamo subito il dover venire via.

E- Come hai vissuto questa partenza forzata? Cos’ha significato per voi?

L- Per noi ha significato vedersi stravolgere la vita, sentirsi profughi e stranieri, vivere otto anni senza una casa, in comunità, quattro anni a Lucca e quattro a Firenze. Per fortuna la mia mamma aveva il lavoro che ci ha permesso di venire via, sennò chissà cosa sarebbe successo senza lavoro e senza niente!

Quando siamo scappati da Pola, nel ’47, in pieno inverno, di gennaio, sotto la neve, con una bora che ti portava via, siamo andati a Trieste a prendere il piroscafo che si chiamava “Il Pola”; io e mio fratello abbiamo aspettato per un mese in ospedale a Trieste, per motivi di salute, mentre i miei genitori e il nonno continuavano a lavorare a Pola. Mia mamma poi è tornata al paese per caricare i nostri mobili sul treno per portarli con noi a Lucca. Siamo andati a Lucca perché lei era riuscita ad avere a lavoro il trasferimento lì, mentre mio padre era stato trasferito a La Spezia; così noi (lei, il fratello Mario e il nonno) abitavamo a Lucca e mio padre ci raggiungeva il sabato sera per passare insieme il fine settimana. Questa “tiritera” è durata per tutti gli otto anni, anche quando ci siamo trasferiti a Firenze.

I primi tempi non sono stati facili, ci guardavano come se fossimo diversi. Abitavamo in una stanza con un’altra famiglia, divisa da dei cartoni; siamo stati fortunati perché ci hanno messo in questo convento del ‘500, in muratura, dove avevamo una stanza vera e propria, anche se in comune con altri; chi stava nella “croce verde” (un altro edificio) aveva le pareti fatte di coperte.

Dopo qualche anno mio fratello si è spostato a Firenze per lavorare, mia mamma era andata in pensione e mio padre continuava a lavorare a La Spezia, così ci siamo trasferiti tutti a Firenze. In Via Guelfa eravamo in una manifattura tabacchi, c’erano i letti e una cucina economica che la mamma di Gianna (moglie di Giovanni) ci aveva spedito. Mi ricordo ancora quando sono andata a prenderla alla stazione di Porta al Prato, dove arrivava il treno merci, con un carretto. Quella cucina è rimasta con noi fino a quando mi sono sposata. In quella cucina si faceva da mangiare tutti insieme, con il fornello a carbone perché non c’era altro. I bagni erano a pian terreno, una fila per gli uomini e una per le donne. Noi si stava al secondo piano quindi tutte le volte che avevi bisogno dovevi scendere di sotto.

E niente, la vita è continuata così. Sono stati otto anni di vita in comunità. Sono successe tante cose: abbiamo cucinato, abbiamo riso, raccontato barzellette, sono nati bambini… un po’ di tutto. Posso dire che abbiamo stretto amicizia vera: una bambina che ho visto nascere, che adesso è una signora anziana, mi ha chiamato anche quest’anno per Natale. Erano tutti profughi come noi.  

Poi dopo quattro anni Mario (il fratello), era lui che lavorava a quel punto, ha fatto domanda per le case popolari. Mamma mia quanti viaggi abbiamo fatto in prefettura! E così dopo mille peripezie, nel ’55, ce l’hanno data e siamo venuti all’Isolotto (quartiere periferico di Firenze).

La nostra è una storia di spostamenti, nel bene e nel male. L’essere scappati e forse anche l’incoscienza della gioventù, ci ha permesso di divertirci, di ricostruirci una vita, di sentirci di nuovo liberi. Conservo ancora la collana d’oro di mia mamma, quella lunga, l’unica cosa che ha riscattato dal monte di pietà dopo essere scappati. Non la darò mai via per niente e per nessuno: ogni giorno mi ricorda chi sono stata, chi sono e chi sempre sarò.

Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’intervista di Ester Giamberini alla Nonna Lidia, abbiamo saputo -con vera soddisfazione e col piacere dello stupore- che Luca Milani, consigliere comunale di Firenze, ha ritenuto di dover leggere tale intervista, in seduta di Consiglio. Ne siamo lieti ed onorati. Ringraziamo il Consiglio Comunale di Firenze ed il consigliere Milani, provvedendo a registrare qui di seguito il video. (Nota della redazione di ZoomIN’)

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