Paula Cooper, afroamericana nata nel 1969, dopo un’infanzia ed un’adolescenza travagliate, fu condannata a morte per omicidio di primo grado, quando aveva solo 15 anni. La pena venne poi commutata in reclusione, a seguito di una mobilitazione internazionale.
Il 14 maggio 1985, con altre tre ragazze, come lei tutte afroamericane e minorenni, accoltellò a morte (a scopo di rapina) un’anziana insegnante di studi biblici, Ruth Pelke, di 78 anni, colpendola 33 volte. La Cooper fu l’unica ad essere condannata alla pena di morte. In virtù della giovane età e del contesto razziale, ci fu una mobilitazione internazionale per salvarle la vita, a partire dal mondo cattolico italiano, per arrivare all’associazione “Nessuno tocchi Caino”, Amnesty International, il partito Radicale, i 3000 lettori de “il XXI SECOLO” rivista che coinvolse dodici sindaci della zona di Orvieto. Dopo pochi mesi da tutto ciò, nel 1988 la Corte Suprema proibì la pena capitale ai minori di 16 anni. La decisione fu ripresa dalla Corte suprema dell’Indiana, che commutò la pena in ergastolo, poi in 60 anni di carcere. Il nipote della vittima, Bill, inizialmente favorevole alla pena di morte per l’assassina di sua nonna, cambiò idea dopo una conversione religiosa, chiedendo la grazia e divenendo abolizionista. Dopo 26 anni di prigione, la Cooper fu scarcerata sulla parola il 17 giugno 2013.
In anni successivi al caso, ci sarà l’abolizione della pena di morte ai minorenni, in quanto giudicata contraria all’VIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che proibisce pene sproporzionate e crudeli.
Tristemente, dopo quasi due anni dalla restituita libertà, il 27 maggio 2015, Paula Cooper è stata trovata morta all’età di 45 anni, a Indianapolis, per un possibile suicidio.
Un libro scritto da Furio Colombo, titola ” Cosa farò da grande “, riferendosi alla gioventù Americana. Dalla penna dell’Autore, così come da uno sguardo imparziale sulla Società degli States, risulta possibile -probabile- non riuscire a diventare grande.
Senza voler citare tutti i casi della “Grande America”, basterà volgere attenzione alla vicenda di Paula Cooper, sedici anni, assassina/prodotto del sociale; e condannata a morire. Condannata dalla stessa società, dalla stessa comunità che l’ha generata e coltivata.
Alois Walden Grassani
Quand’era fanciullina, veramente piccola, diciamo dai 6 mesi in su, Paula, oltre all’handicap d’essere nera nel civile biancore americano, ha subito cominciato a scontare le super tensioni di una famiglia votata allo sfacelo, di un padre violento, spesso ubriaco, che ha esercitato la patria potestà in maniera -a dir poco- muscolare.
La piccola Paula è stata detestata fin dalla nascita perché nata per errore. Ogni giorno i “paterni” colpi di cinghia le hanno lasciato i segni. Le corde di gomma venivano usate allo stesso scopo, il filo elettrico per legare la piccina nel momento delle varie sevizie; venivano date vere e proprie mazzate alla madre, deturpata e violentata davanti ai figli. L’inferno della famiglia Cooper significava veder scappare i figli e vederli riportare a casa dalla polizia: un ciclo infernale continuo. Paula fu ricoverata in un istituto per fanciulle maltrattate dai genitori (in America c’era già anche questo!!!) Paula e la sorella tentarono pure il suicidio collettivo assieme alla madre. A scuola, Paula non voleva spogliarsi e cambiarsi in occasione delle lezioni di ginnastica: l’intenzione era quella di occultare le ferite, i segni, i lividi. “Quando mio padre mi picchiava, nessuno mi era mai venuto in aiuto. Nessuno mi ha mai voluto bene. La legge non ha mai fatto nulla per noi: ci sbattevano giusto per un po’ da un posto all’altro. Ma non provo odio per tutto questo. Io e Karen Korder (la compagna di delitto, n.d.r.) eravamo assai amiche. Ma lei in tribunale ha mentito per salvare la pelle, dicendo al giudice che io comandavo la banda. E poi non siamo andati per uccidere, anche se non so perché ho ucciso…. Sono davvero addolorata di quanto è accaduto. E vorrei cancellarlo“. Un cronista le ha chiesto cosa vorrebbe fare nella vita e lei ha risposto: “Non ci penso neppure, perché temo che non avrò davanti a me una vita. Eppure vorrei ancora vivere“.
“Quando guardiamo un “criminale”, ricordiamoci che era un fanciullo anche lui; e prima ancora era un neonato“ Così in un’intervista, Alois Walden Grassani. “Molti si appellano alla legge del Karma, e talora dietro essa nascondono la propria pigrizia, indolenza, impotenza. In realtà ognuno deve prendersi le sue responsabilità: Paula Cooper avrà certo le sue, il suo Karma (il “carattere” accumulato in questa vita), ma la società stessa è generatrice di situazioni che non può semplicemente cercare di schiacciare e cancellare. La società stessa è generatrice di situazioni che non può semplicemente cercare di schiacciare o cancellare. La società è essa stessa madre di questi figli, e non può limitarsi ad ucciderli, per di più se minorenni.”
1987: PENA DI MORTE ANCORA IN 166 STATI
Apparentemente, la condanna a morte è legalmente considerata una palese violazione delle norme e dei trattati sui diritti umanitari: tuttavia ancora in ben 166 Stati del mondo vige la pena capitale.
Primi fra tutti sono gli USA, dove solo 9 dei 36 Stati dove è estesa tale barbara esecuzione, proibiscono che venga comminata ai minori di 18 anni.
Negli altri 27 Stati c’è un più basso limite per la condanna: nel Vermont la si estende perfino a fanciulli di 1o anni, nel Montana il limite è 12 anni, e 13 nel Mississipi. Tuttora ci sono 31 condannati fra i 15 e i 17 anni che attendono di essere giustiziati in 15 Stati. E’ stata attuata la condanna, dal 1976, su 66 ragazzi, e complessivamente i condannati alla pena capitale, sono stati 1788. Uno degli altri stati dove è prevista la condanna a morte è La Città del Vaticano, dove vige ancora il codice penale italiano dal tempo del Concordato. In Europa è ancora in atto in Belgio, in Bulgaria, in Cecoslovacchia, in Yugoslavia, in Polonia, in Romania, nell’URSS, in Turchia (impiccagione), in Grecia (fucilazione).
In Africa tutti gli Stati, eccetto il Capo Verde, conservano la pena di morte; in Sudafrica, Somalia e Sudan è eseguita con l’impiccagione, mentre con la fucilazione in Dahomey, Nigeria, Ghana, Gabon.
In Asia è rimasta vigente l’impiccagione in Afghanistan, in Giappone, in India, in Pakistan; la decapitazione nello Yemen del Nord; la fucilazione in Vietnam, in Thailandia, in Cambogia, in Cina, nelle due Coree, in Indonesia, nell’Iran, in Israele, nel Laos; la sedia elettrica nelle Filippine e nel Taiwan.
Nel Centro e Sud America è rimasta vigente l’impiccagione in Guyana ed in Giamaica; la fucilazione in Guatemala, a Cuba, ad Haiti, nel Paraguay, in Cile. In Oceania vige la pena capitale nelle isole di Tonga e di Samoa.
Altri 18 Stati, fra cui l’Italia, la mantengono solo in casi eccezionali, come quelli previsti dalle leggi militari. Dunque sono solo 28 gli Stati in cui la legge ha cessato di uccidere.
Donata Melaku Canu 1987
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